Luca Davide Enna: Gente di una volta

| 29 novembre 2012 | 18 Comments

Cari amici del “cacciatore.com”,certo di esaudire il desiderio del nostro amico Luca Davide Enna,ricoverato presso un Ospedale milanese per un delicato intervento,Vi invio queste sue poche parole,che testimoniano la sua vicinanza con tutti noi,e uno stralcio della sua recente fatica letteraria che con orgoglio ha voluto annunciare da questo sito web e che sarà dato alle stampe tra breve.Vadano all’amico luca la mia personale vicinanza ed un fortissimo IBAL unitamente a testimonianze di affetto e di stima che tutti gli significherete. Francesco Cattani

Carissimi,
in anteprima dall’ospedale San Donato milanese, invio a tutti voi uno dei racconti che faranno parte del mio prossimo lavoro bibliografico “Gente di una volta - nuove storie di uomini e cani
Mi auguro che sia di vostro gradimento.
Cari saluti a tutti i cacciatori e i pescatori d’Italia.
Luca Davide Enna
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“…E condanna il qui presente, Gobetti Giovanni, fu Amedeo, a p
agare la somma di lire trenta più lire cinque di spese processuali, entro giorni quindici dalla data odierna. Trascorso tale periodo, l’imputato, in caso di mancata oblazione, sarà tradotto alla carcerazione con mesi due di detenzione”. “Avvocà, ma, non si può far nulla?” “Niente…Del resto, ci siamo appellati alla clemenza della Corte”.
“Bojaccia miseria ! E, se non ci fossimo appellati, che pena mi avrebbero comminato ? Mi avrebbero impiccato e, dopo, esposto al pubblico vituperio, fin quando non fossi divenuto cibo per corvi ?” “Del resto, caro Gobetti, noi abbiamo riposto la nostra completa fiducia nelle mani della giustizia, ma bisogna ricordare che tu hai infranto la legge e ti hanno beccato, come dire, con il sorcio in bocca. Pazienza, accontentiamoci così.
Casomai, ricorreremo in appello”. “Per carità, avvocato, la ringrazio. Se m’hanno appioppato trentacinque lire di multa per quattro fagiani e una lepre smunta come la carestia, dopo l’appello è capace che m’impiccano per davvero”.
Usciti dal tribunale della città, si strinsero la mano e il Gobetti fece per avviarsi, quando l’avvocato lo afferrò per un braccio, con calma e decisione, dicendo: “In settimana puoi passare al mio studio per saldare la parcella”. L’ometto lo guardò con aria stralunata, annuì e andò via senza più voltarsi, giacché il prezzo dei fagiani era salito parecchio. Per non parlare di quella lepre, reduce dalla carestia egizia, che gli avrebbe fruttato, sì e no, tre lire o, al massimo, tre lire e cinquanta centesimi. Ora sorgeva un problema serio: come fare a pagare la multa?
Nella Bandita del Conte Lucchetti non conveniva più passarci, poiché il “guardia” era un cerbero, con più occhi che corna, anche se la moglie l’impegno ce lo metteva… L’altra Bandita, poco lontano, aveva tre guardie armate pronte a far fuoco su chiunque. C’era da rischiare di far la fine del Peroni. Nannino Peroni, un bracconiere di quelli col baffo, si era convinto di darla a bere a tutti, fino a che le guardie del Conte gli fecero la “posta” e lo riempirono così tanto di sale che pareva un’aringa. Durò poco, perché le ferite erano profonde e troppo numerose. Finì che il povero Peroni iniziò a rinsecchire sempre più e, di lì a poco, ci lasciò la casacca.
Poco male, poiché era uno scapolone che conduceva una vita eremitica, ma, non si può pensare che sia più saggio riempire un uomo di grani di sale, a fucilate, fino ad ammazzarlo, per salvare la pelle delle lepri o le piume dei fagiani di un Conte. Nessuno fece denuncia, il poveretto, infatti, non aveva parenti e la cosa finì nel dimenticatoio, almeno per ciò che riguarda la Giustizia, mentre, in Paese, tutti sapevano com’era finito il Peroni e anche i più coraggiosi si tenevano a buona distanza dalla Bandita. Troppo rischioso, dunque. Passi per le trentacinque lire più la parcella, da recuperare, ma rimetterci la pellaccia era un affare troppo serio pure per lui: anche più serio dei debiti o, alle brutte, della galera. Pensa e ripensa, andò a finire all’osteria del “Briccone”.
Un localetto simpatico, non foss’altro per la quantità esagerata di ceffi che vi sostavano, seduti su rozze panche poste ai lati di lunghi tavoli scuri in legno massello. L’interno del locale pareva un antro. Le pareti erano rustiche, in pietra. Alle travi, a vista, erano appese delle luminarie e, sui muri, di tanto in tanto, si trovavano, in bella mostra, gli oggetti più diversi: piatti e pentole di rame e una faina imbalsamata, un cappello da brigante dei primi dell’Ottocento, con tanto di fibbia d’argento; una cartucciera, un vecchio archibugio non più funzionante, alcuni quadri d’autori ignoti, raffiguranti scene di caccia o placidi ruscelli scorrenti in mezzo a ombrosi boschi.
Insomma, un campionario davvero simpatico, anche se, ad allietare il tutto, contribuiva la “parete della cuccagna”, così definita poiché il muro in pietra era stato rivestito da tavole squadrate riempite di ganci, sui quali, legati o all’interno di pezzi di rete da pesca stavano appesi salami, salsicce, prosciutti, lonze, caciotte e ogni altro ben di Dio prodotto dalle mani di un contadino o un allevatore. Chi andava al “Briccone”, con pochi centesimi, aveva la possibilità di mangiare pere con formaggio, salumi, zuppe di cavoli, fagioli o ceci e cotiche o qualche bel minestrone fumante. I ceffi, i disperati e qualche galantuomo che frequentava quell’osteria, lo sapevano bene e Patroclo poteva contare su una clientela sicura. Mentre bevevano e mangiavano, attività che impegnava alcuni da mattina a sera, gli avventori discutevano tra loro e si accordavano per qualche “affare”, non sempre assolutamente lecito…Proprio quel giorno era presente nel locale tale Filippeschi Giuseppe Mario, detto “Gege il Cipolla”, a causa della sua abitudine di lacrimare quando rideva a crepapelle, ragion per cui era difficile comprendere se ridesse o piangesse, in taluni frangenti. Il Cipolla era un tipo corpulento, rubizzo in viso, con capelli castani chiari e occhi azzurri, piccoli, che gli conferivano un’aria “scaltra” da monello, sebbene avesse già passato i quaranta da un po’. Appena entrato, nonostante il fumo e la scarsa luminosità del locale, il Gobetti individuò l’amico, in fondo, intento a spazzolare un piatto di ceci con cotiche e cavoli.
Si avvicinò e disse: “Ho bisogno di un aiuto per racimolare un po’ di soldi e saldare alcuni debiti” E raccontò tutto al Cipolla il quale, a bocca aperta, lo osservava impensierito. Terminato il racconto, si guardarono in viso e l’amico gli domandò: “Dove pensi di andare a cercare ciò che ti serve per il tuo debito?”. Che personaggio straordinario, concreto, il Filippeschi! L’amico più caro gli racconta di esser appena uscito da un tribunale e condannato a pagare una multa salata o a finire in carcere, se entro venti giorni non risarcisce il debito con la società, e, naturalmente, con il Conte, gli spiega che quel debito è stato causato dal furto di alcun fagiani e di una misera scheletrica lepre e, cosa gli propone? Di perpetrarne un altro, per rimettersi in pari con i debiti; alla coscienza si penserà in un secondo momento, magari in confessione con Don Nicola, cacciatore anche lui, perciò, potenzialmente più comprensivo, almeno, secondo il loro modo di pensare…Si accordarono per trovarsi di lì a due giorni, dopo aver preparato il piano strategico.
Giunta la sera decisiva si avviarono in silenzio, mentre il paese era già avvolto dal buio e solo qualche lama di luce che passava attraverso le battute delle finestre o qualche fievole scia di fumo che saliva dai camini facevano comprendere che vi era vita all’interno delle case. Camminarono per un paio d’ore, oltrepassarono la tenuta del Conte Lucchetti e il Gobetti si voltò indietro rimirando quel luogo con disprezzo. Si diressero verso i poderi Rosignoli e fiancheggiarono la vecchia cascina dei Garmentini, dove furono intercettati dai cani legati a catena, per cui si levò una canizza tale che pareva una caccia alla volpe all’inglese.
Si accese una luce, un baffuto signorotto di campagna si affacciò per dare un’occhiata e zittire i cani dicendo “Cuccia ! Cuccia voi, bestiacce ! Abbaiaste così quando si va al cinghiale, anziché scagnare ai gatti randagi o alle istrici, meritereste il pappone che vi do ogni giorno. Se non la smettete scendo giù e vi distribuisco una gragnola di legnate, così vedremo se vi zittite !” Scese il silenzio, immediatamente; così i due mariuoli dovettero ringraziare il signor Lucio se erano potuti passare quasi inosservati. Traversarono il ponticello sul fiume che divideva il comune del paese da quello vicino e si ritrovarono nella vasta piana antistante il bosco Carracci.
Sotto lo specchio della luna piena il bosco faceva veramente paura. Sembrava una scura muraglia fluttuante popolata di spettri. Di tanto in tanto, il verso lugubre di un assiolo o una civetta rompeva il silenzio e i due ingollavano la saliva, tremanti come foglie. Arrivarono al bordo del bosco, scavalcarono il muro di cinta e si ritrovarono in mezzo alle piante secolari, dove ogni scricchiolio li faceva sbiancare. Camminarono piano fino al centro della radura e si fermarono, in attesa degli eventi. Dopo una lunga ora, nel bel mezzo della radura, arrivò un capriolo, il quale, guardingo, alzava la testa per fiutare l’aria e poi l’abbassava per strappare qualche ciuffo d’erba, agitando nervosamente la coda. Subito dopo ne arrivò un altro e successivamente, di lato, una scrofa con quattro porcettoni.
Attesero muti che le bestie si avvicinassero e poi lasciarono andare due botte, secche, tremando per lo spavento quando si accorsero dell’effetto causato dal boato delle fucilate. Per alcuni interminabili istanti, intorno a loro ci fu il caos e poi il silenzio prese il sopravvento. Legarono le due bestie appena uccise, smontarono i fucili, li rimisero nelle bisacce e pian piano si avviarono a ritroso verso il paese. Il viaggio di ritorno fu molto più lungo di quello dell’andata, poiché dovettero viaggiare seguendo le bordure della vegetazione, per non farsi scorgere. Arrivati al ponte, mentre stavano per attraversare, videro una sagoma a cavallo. Terrorizzati spinsero le bestie lungo la china del fiume, finché esse non scomparvero, ruzzolando, dentro al canneto. Quando l’uomo a cavallo giunse sul ponte si accorsero che era il “guardia”, detto il “Cornetti”.
In effetti il suo cognome era Corvetti e di nome faceva Rinaldo, ma, dati gli “impegni” della moglie, giù al Briccone l’avevano soprannominato così. “Buonasera signor Corn…cioè…Corvetti, qual buon vento la porta da queste parti?”, esordì il Cipolla. “Vento di tempesta, se ripesco il suo compare a bazzicare in bandita. Il Conte mi ha autorizzato a sparare sui bracconieri e, stavolta, vi giuro su quanto ho di più caro, cioè la mia reputazione, che se becco uno di voi là dentro lo faccio secco”. Il Filippeschi tremava come una foglia, ma la tentazione di rispondere era troppo forte e così lasciò andare il fendente.
“Signor guardia, non sta bene che accusiate il mio amico a causa di un errore da lui commesso, per il quale, tra l’altro, sta già attrezzandosi per risarcire il Conte e la società. Poi, le consiglierei di non tirare in ballo la sua reputazione; la sua signora, una santa donna, tutta e chiesa, potrebbe non comprendere che si metta in ballo il suo onore per quattro fagiani spennacchiati. Non lo potrebbe nemmeno se si trattasse di un cervo con le più grosse corna della contea!” Il guardia lanciò uno sguardo fiammeggiante verso il Cipolla, mentre lui iniziava a lacrimare trattenendo gli sghignazzi a forza. “Come vi permettete di rispondermi così? Se scendo da cavallo vi darò il fatto vostro! Case, avete detto? Ma come parlate, razza d’ubriacone che non siete altro. Andate giù al Briccone a scaldarvi il cervello, così troverete altri figuri pari a voi e vedete di non capitarmi più davanti,altrimenti non sarò così comprensivo”.
Il corpulento manigoldo guardò l’aitante sceriffo dei poveri e rispose, senza pensarci troppo: “Caro signor Corvetti, le rammento che qui, dove ci troviamo ora, lei è fuori giurisdizione, dunque, le sue minacce sono inopportune. Mi permetto pure di ricordarle che lei sta importunando due gentiluomini intenti a ritornare verso le loro dimore. Ringrazi il Cielo che noi rispettiamo la Legge, altrimenti saremmo costretti a reagire alla sua provocazione, per le spicce e poi starebbe al giudice dimostrare chi aveva ragione o torto, dopo che avessero recuperato i suoi stracci dal fiume!”.
Il guardia s’infuriò e rispose, strillando: “Lei non sa con chi ha a che fare. Sono un uomo stimato da tutti, in Paese”. “Magari lo sarà sua moglie, ma, non proprio da tutti”, mormorò a voce bassa il Gobetti. “Non finirà qui, ve lo garantisco” concluse il Corvetti. “E invece finirà proprio qui”, replicò sicuro e quasi spavaldo il Cipolla, rassicurato dal fatto che, chiaramente, il Corvetti non aveva visto ciò che avevano combinato pochi minuti prima, dunque, non aveva prove per accusarli di alcunché. Il guardia sfrecciò via attraversando il ponte e frustando il cavallo per farlo correre di più, mentre il Cipolla lacrimava a più non posso, mentre rideva come un matto, e il Gobetti si sedeva per terra, sudato come un reduce dai bagni turchi.
“E non se ne poteva più, del resto!” disse sicuro all’amico. Ripresero i loro carichi, recuperarono le armi e si avviarono di gran carriera verso il Paese, sviottolando al buio per non esser scoperti. Giunti a destinazione sviscerarono gli animali, li scuoiarono e li lasciarono appesi a frollare. Poi si recarono ciascuno a casa propria. L’indomani mattina, di buonora, si ritrovarono al Briccone e si accordarono per sistemare la merce. Mentre discutevano entrò nel locale un signore distinto, calvo, magro e abbastanza alto, vestito di scuro, con una faccia già vista, almeno dal Gobetti…Il signore, osservati i due individui, si diresse senza esitazioni verso di loro. “Buon giorno, signori”. Il Gobetti sbiancò “Vostro onore, buon giorno. Ho ancora oltre due settimane di tempo per saldare il debito; non ditemi che avete cambiato idea”.
“La Legge non cambia idea, Gobetti e nemmeno io, se è per questo, solo che ho informazioni che mi dicono che voi e un certo Filippeschi Giovanni Mario, detto Gege il Cipolla, siate i migliori, o almeno, i peggiori bracconieri di questo Paese e delle zone limitrofe”. “Molto piacere vostro onore”, disse il Cipolla tenendo in mano il cappello, “Filippeschi Giuseppe Mario, per servirla. Non Giovanni”. “Giovanni o Giuseppe, conta poco, sono due nomi importanti, biblici, e comunque non sono venuto in questo luogo a cercar voi per parlare dell’Evangelo. Ora si dà il caso che domenica si debba sposare mia figlia e, né io né quel grullo di mio genero si sia riusciti a procurare un po’ di carne di selvaggina come si deve. L’annata è scarsa e in giro non si trova quasi nulla. In riserva, invece. ” “E noi che cosa c’entriamo…Vostro Onore? Volete indurre due galantuomini come noi a contravvenire alla Legge?”.
“Bando alle ciance Gobetti! Io ho fatto l’avvocato penalista per diversi anni, prima di decidere di fare il giudice ed ho conosciuto persone come voi, le ho difese ed ho vinto parecchie cause, pur sapendo che essi eran mariuoli. Ora, la Legge m’impone di condannare i fuorilegge colti in flagrante ma, mia moglie…è lei che fa la Legge a casa mia… mi ha già detto che, se non procuro la selvaggina per il pranzo di nozze di nostra figlia, posso iniziare a mangiare rape e pane nero per i prossimi tre anni”.
“Oh, perbacco, questa sì che è una vicenda strana. Si direbbe che voi siate cascato nel bel mezzo della legge del contrappasso di cui parlava Dante o, almeno, la Genesi biblica”. “Ma che Dante e il serpente tentatore! Qui si tratta di un banchetto di nozze e di tre anni di rape bollite. E poi, in fin dei conti, vi propongo un’opera di bene. Si aiuta una giovane che deve accasarsi, la si rende felice nel giorno delle nozze, si fanno felici anche il babbo e la mamma e si guadagna qualche liretta per saldare i debiti con la giustizia.”
I due mattacchioni si guardarono in faccia, volsero lo sguardo verso il giudice, stettero alcuni istanti in silenzio e poi si alzarono. “Bene! Affare fatto. Se serve per aiutare una giovane sposa, ci si deve sacrificare”. “Mi verrà a costar molto il sacrificio?” chiese, con preoccupazione il giudice. “Assolutamente, ribatterono i due”. Si diedero appuntamento e un paio d’ore dopo si ritrovarono in un luogo convenuto per consegnare la merce. “Manigoldi! Lo dicevo io. Avevate già la refurtiva pronta prima che ci accordassimo”. “Vostro onore”, rispose il Cipolla “e questo non è, secondo voi, un segno del Cielo?” “Lascia stare il Cielo e non lo nominare invano. Comunque: sono davvero centotrenta lire? A me sembra un po’ troppo per due bestie così.” .
“Signor giudice,due animali di tal fatta valgono almeno il doppio, solo che noi non ci si vuol speculare sopra. Lo si fa per la bimba che si sposa”. Il giudice tolse fuori una certa quantità di grossi fogli di carta moneta grandi come fazzoletti, pagò il debito ed andò via salutando con mestizia. “Ma guarda un po’ che mi ha fatto fare mia moglie. Se lo avesse saputo mio padre…” Il giorno delle nozze fu approntato un banchetto straordinario e tutti fecero i complimenti al Giudice per la varietà del menù e la ricchezza delle pietanze. Passò un po’ di tempo e, una bella mattina, presso il tribunale cittadino, venne tradotto un certo signore. “Nel nome del popolo italiano, si condanna il signor Filippeschi Giovanni Mario a pagare…” “Mi perdoni, vostro onore: Giuseppe Mario, non Giovanni, ve lo dissi già un’altra volta…” disse il Cipolla tutto rosso in viso per la vergogna.
Il giudice De Carolis allentò il nodo della cravatta, deglutì la saliva e poi riprese “Dicevamo: alla somma di lire settanta, per la cattura abusiva di sei fagiani, più lire cinque per le spese processuali, entro giorni quindici dalla data odierna. Trascorso tale periodo, l’imputato, in caso di mancata oblazione, sarà tradotto alla carcerazione con l’ulteriore condanna a mesi due di detenzione. Viste, comunque le attenuanti generiche e considerato che il Filippeschi Giuseppe ha commesso tale reato per la prima volta, questa Corte si riserva il diritto di decurtare la somma prevista del cinquanta per cento e di concedere il beneficio dell’annullamento dell’eventuale pena detentiva. Ciò rimarrà agli atti e in caso di recidiva il Filippeschi dovrà risarcire la somma dovuta per intero, eventualmente aggravata di quella per un successivo reato consimile. La sentenza è decisa, la Corte si ritira.”
“Signor giudice” disse a voce bassa il Cipolla dopo essersi avvicinato al banco “la ringrazio per la sua clemenza”. Il De Carolis lo squadrò dall’alto verso il basso, lo fece accostare per potergli sussurrare qualcosa all’orecchio e poi disse: “Non ringraziare me, ma mia moglie, la mia seconda figlia, il brocco del fidanzato e quest’annata di carestia, sennò noi non si sarebbe stati qui a discutere. Vedi, invece, di recuperare il tuo compare e di procurarmi qualcosa per il quindici di questo mese, altrimenti mia moglie mi fa mangiare bietole e pane tostato per due anni!”. Filippeschi andò via salutando con reverenza il Giudice e si recò al Briccone per raccontare l’accaduto al Gobetti e chiedergli un aiuto. Il De Carolis rientrato a casa pareva avesse inghiottito un porcospino. Aveva la coscienza sporca e prima di andare dal confessore voleva vuotare il sacco almeno con la mamma.
Andò dall’anziana nobildonna e le raccontò tutto, concludendo “Hai compreso mamma. Io, il figlio del Giudice De Carolis, nipote del Giudice De Lollis, ho dovuto fare un’azione simile. Ti rendi conto” La mamma lo guardò con compassione, sorridendo, e poi disse: “Tesoro, non c’è nulla da fare, le colpe degli antenati ricadono sui figli e sovente, sui nipoti. Tanti anni fa, quando ci sposammo con tuo padre, tuo nonno, il quale, sia detto, non era un cacciatore eccelso, vedendo che il genero era una schiappa come lui e ritrovandosi a ridosso del nostro matrimonio senza avere una confacente quantità di selvaggina da distribuire ai commensali, dovette ricorrere allo stratagemma di accordarsi con due noti bracconieri per procurare il cibo necessario al nostro pranzo di nozze”. E’ proprio vero, le colpe dei padri ricadono sui figli, ben lo sapevano Pietro Gobetti detto “starnazza” e Giuliano Filippeschi detto “trecannoni”, i due famosi bracconieri che avevano provveduto a fornire la selvaggina necessaria al pranzo di nozze tra la nobildonna Camilla De Lollis e il giovane e promettente avvocato Martino De Carolis…

Autore: Luca Davide Enna

 

 

 

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Category: Racconti

Comments (18)

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  1. renzo scrive:

    AUGURO VELOCISSIMA E TOTALE GUARIGIONE ALL’AMICO DAVIDE ENNA .
    Per il racconto che dire .. favoloso !

  2. franc scrive:

    Anche se l’avevo gia letto questo racconto non ho potuto fare a meno di rileggerlo.
    Auguro a Luca Davide Enna una pronta guarigione.
    Francesco Marcazzan

  3. michele scrive:

    Tanti auguri per una veloce guarigione.
    Michele, Pi

  4. Marco Efisio Pisanu scrive:

    Caro Luca, spero che tu possa riprenderti al più presto.
    Ti faccio i miei più sinceri auguri per una pronta guarigione.
    Un abbraccio
    Marco e.p.

  5. big hunter scrive:

    Tantissimi Auguroni per una pronta guarigione ed un felice ritorno alla tua bellissima isola.
    Ps: bel racconto, anche se lo avevo già letto, l’ho riletto con piacere

    big hunter rm

  6. Giovanni59 scrive:

    Auguri e ….avvidecci sani… (up)

  7. Marcello scrive:

    Tanti cari auguri di pronta guarigione Luca.
    Bellissimo il racconto.

  8. Alessandro federighi scrive:

    Bravo Luca ,come al solito bel racconto………mi raccomando tieniti conto e………….a nos bidere sempre sanos,,,,,,,,a nos bidere sempre SARDOS………………….forza paris!!!!!!!!!!!!!! 8-O 8-O 8-O 8-O

  9. Nello scrive:

    Luca, un augurio di pronta guarigione. A presto per il prossimo racconto.

  10. antonio scrive:

    Ciao Luca,
    Auguriamo una rappida guarigione e darci la possibilità di seguire e leggere i tuoi racconi. in bocca al lupo gli amici della greffa di pipistrello
    Zi intindimmo poi a sassari.

  11. Giacomo scrive:

    Un augurio di pronta guarigione al caro Luca Davide Enna. :wink: Salutiamo

  12. Springer scrive:

    Da cacciatore a cacciatore….IBAL Luca… :wink:

  13. Luca scrive:

    Ciao Ragazzi.
    Ringrazio quanti di voi mi scrivono ogni giorno e-mail, sms o mi contattano su facebook o su Skipe (il mio recapito di riferimento è Luca Davide Enna).
    Vi prego di scusarmi se i miei contatti si sono rarefatti, ma il periodo è quello è ed ora mi trovo ricoverato all’ospedale San Donato milanese per problemi cardiaci.
    chi di voi volesse può telefonarmi anche al cellulare (chiedete il mio numero, poicè lo hanno in diversi :Giacomo Cretti, Sergio Berlato, Daniele, Gionni Bagnolesi, Francesco Cattani, Ilio, Renzo Stella, Corrado, Riccardo, Enrico, ecc.).
    Vi abbraccio Tutti

    Luca

  14. Antonio Pisano scrive:

    Ciao Luca Auguri vivissimi di pronta guarigione. Antonio Pisano

  15. Bonifacio scrive:

    Senza dubbio un bel racconto Luca, ti auguro di cuore, che possa risolvere i problemi di salute al più presto, così potrai farci leggere ancora qualche altro bel racconto. Tanti cari auguri di una pronta guarigione. (n)

  16. Alessandro federighi scrive:

    Ciao Luca ho saputo che l”intervento ha avuto alcune problematiche importanti, ma ora stai meglio,debole ma meglio………..mi raccomando tieni duro,,,,,,,,,,,,,,,,, (n) (n) (n) (n) salutoni…………………..

  17. Giacomo scrive:

    Colgo l’occasione per fare gli auguri a Luca di buone feste ed un felice anno nuovo in buona salute. Luca quando puoi attendiamo tue notizie. :wink: Salutiamo

  18. Pierpaolo scrive:

    é in buonissime mani. :wink:

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